Voglio essere triturato come il frumento

Le lettere di Sant’Ignazio di Antiochia. Il Colosseo è il simbolo di un’assenza. Tra le sue belle forme non si trova traccia di un pensiero buono sull’uomo, e tutta la sua grandiosità ed equilibrio per secoli sono stati messi al servizio di una profanazione “L’uomo, cosa sacra all’uomo, è ucciso per divertimento e per gioco”, scriveva Seneca nelle sue epistole parlando dei giochi gladiatori che si tenevano negli anfiteatri romani (Epistola 95, 30 sgg.). Tutto l’estro speso nel concepire un’opera così mirabile era servito a tirar su niente più che un mattatoio, un palco su cui inscenare la macellazione dell’uomo ad opera di un altro uomo.

Verso mezzogiorno sono capitato per caso a uno spettacolo; mi attendevo qualche scenetta comica, qualche battuta spiritosa, un momento di distensione che desse pace agli occhi dopo tanto sangue. Tutto al contrario: di fronte a questi i combattimenti precedenti erano atti di pietà; ora niente più scherzi, ma veri e propri omicidi. I gladiatori non hanno nulla con cui proteggersi; tutto il corpo è esposto ai colpi e questi non vanno mai a vuoto.

La gente per lo più preferisce tali spettacoli alle coppie normali di gladiatori o a quelle su richiesta del popolo. E perché no? Non hanno elmo né scudo contro la lama. Perché schermi protettivi?Perché virtuosismi? Tutto ciò ritarda la morte. Al mattino gli uomini sono gettati in pasto ai leoni e agli orsi, al pomeriggio ai loro spettatori. Chiedono che gli assassini siano gettati in pasto ad altri assassini e tengono in serbo il vincitore per un’altra strage; il risultato ultimo per chi combatte è la morte; i mezzi con cui si procede sono il ferro e il fuoco.

E questo avviene mentre l’arena è vuota. “Ma costui ha rubato, ha ammazzato”. E allora? Ha ucciso e perciò merita di subire questa punizione: ma tu, povero diavolo, di che cosa sei colpevole per meritare di assistere a questo spettacolo? “Uccidi, frusta, brucia! Perché ha tanta paura a slanciarsi contro la spada? Perché colpisce con poca audacia? Perché va incontro alla morte poco volentieri? Lo si faccia combattere a sferzate, che si feriscano a vicenda affrontandosi a petto nudo.” C’è l’intervallo: “Si scanni qualcuno, intanto, per far passare il tempo.”

(Seneca, Lettera a Lucilio, cap.7, 3-5)

 

Durante una celebrazione della Via Crucis Giovanni Paolo II utilizzò queste parole per descrivere l’Anfiteatro Flavio: “Tragico e glorioso monumento della Roma imperiale, testimonianza muta del potere e del dominio, memoriale muto di vita e di morte, dove sembrano risuonare, quasi come un’eco interminabile, grida di sangue e parole che implorano concordia e perdono”. Al Colosseo si fa memoria del fatto che la civiltà non si misura dai successi della sua architettura, della sua tecnica o dal suo grado di efficienza organizzativa. In maniera efficiente, sotto la mano esperta della tecnica, perfino con un tocco di bellezza, l’uomo può essere ridotto allo stato di cosa e dato in pasto all’uomo.

Ma venne un giorno in cui quelle pietre tristi divennero la ribalta del soprannaturale e migliaia di spettatori assistettero stupiti a qualcosa di mai visto prima. Un uomo condannato a morire divorato dalle bestie fece il suo ingresso nell’arena e depose la sua carne con la stessa facilità con cui noi potremmo mettere fuori dalla porta un indumento bagnato. Il nome di costui era Ignazio di Antiochia e questa è la storia dei suoi ultimi giorni.

Era l’anno 106 dell’era cristiana. L’imperatore Traiano festeggiava la sua vittoria contro Decebalo, re della Dacia, impresa immortalata sulla colonna che ora svetta vicino all’Altare della Patria. In onore di quella strage ne venne organizzata un’altra: 123 giorni di giochi in cui comparvero nello steccato diecimila gladiatori e dodicimila fiere. Il 20 Dicembre dell’anno 107, l’ultimo giorno delle feste pubbliche, fu condotto nell’arena un vecchio. Si trattava del vescovo di Antiochia, al tempo una delle città più importanti e popolose dell’impero romano. Era stato discepolo di Giovanni, insediato sulla cattedra vescovile dallo stesso Pietro prima che questi decidesse di partire per Roma. Il suo nome era Ignazio.

Lo storico Eusebio di Cesarea racconta che fu catturato durante la persecuzione di Traiano contro i cristiani e “inviato dalla Siria nella città di Roma per essere dato in pasto alle belve, a causa della testimonianza resa a Cristo.” Viaggiò per settimane, per terra e per mare, di notte e di giorno, tenuto in custodia da un manipolo di soldati che chiamava “i miei dieci leopardi”, quello speciale tipo d’uomo che ogni volta che riceve del bene diviene più crudele. Ovunque Ignazio sostava i cristiani accorrevano per vederlo e consegnargli un ultimo saluto. In ogni diocesi predicava, esortava e ammoniva affinché le comunità rimanessero fedeli alla tradizione degli apostoli. A Smirne incontrò il pupillo di Giovanni l’Evangelista, il vescovo Policarpo, e venne accolto con calore dalle comunità di Efeso, Trales e Magnesia. Riconoscente per tanta accoglienza scrisse sette lettere, dirette a quelle stesse Chiese che, con tanto fervore, lo avevano ricevuto.

In una di queste lettere, quella diretta ai romani, compare qualcosa che non si era mai letto prima. Essendogli giunta la notizia che i fedeli di Roma stavano cercavano di revocare la sua condanna a morte, si affrettò a dirigere loro, da Smirne, una supplica inaudita:

“Con gioia muoio per Dio, a condizione che voi non me lo impediate. Vi supplico: non dimostrate per me una benevolenza intempestiva. Lasciatemi essere alimento delle fiere, perché, attraverso loro, si può raggiungere Dio. […] Cerco colui che è morto per noi: voglio colui che è resuscitato per noi. La mia nascita è imminente. Perdonatemi, fratelli! Non impeditemi di vivere, non desiderate che io muoia, poiché desidero essere di Dio. […] Vivo, vi scrivo, desiderando morire. […] Se sarò martirizzato, mi avrete voluto bene. Se sarò respinto, mi avrete odiato.”

I cristiani di Roma obbedirono alle sue preghiere. Morì come aveva chiesto triturato dai denti delle belve del Colosseo. Morì, come aveva auspicato in una sua lettera, ringraziando con gioia per le bestie preparate per lui. Andò loro incontro come chi va incontro ad un amico, allettandole affinché lo divorassero, costringendole ad avventarsi contro di lui. Tornata vuota l’arena, e terminato lo spettacolo, il pubblico si ritirò stordito. Quando la notte cominciò a calare sulla città di Roma, alcuni cristiani penetrarono nell’arena alla ricerca dei resti di Ignazio. Trovarono il suo femore ed il suo cuore. Presi da un soprannaturale entusiasmo, camminarono senza tener conto della distanza, in direzione delle catacombe. I suoi resti oggi riposano presso la basilica di San Clemente in Laterano.