Moby Dick di Herman Melville. Caccia alla balena bianca per non morire di insensatezza

L’8 gennaio è giunta la buona notizia che il settimanale Tempi, chiuso da qualche mese per difficoltà nella tenuta dei conti, ha ripreso le sue attività con pubblicazioni mensili e con l’aggiornamento costante del sito tempi.it. Per invitare tutti a conoscere questa rivista e magari ad abbonarvi, riporto di seguito parte di un articolo pubblicato il 6 settembre 2017 a firma di Annalisa Teggi, incentrato sul romanzo di Moby Dick di Herman Melville. Buona lettura. L’articolo integrale lo trovate qui.

Per non morire d’insensatezza

Ci sono volte in cui la risposta più sensata è nel posto meno rassicurante. Cioè: è più sensato chiedere, esigere, una risposta ai fastidi e alle ferite che, anziché lasciarci comodi lì dove siamo, ci metta nel bel mezzo di una ricerca azzardata, capace di proporci un punto di approdo in cui le nostre mille contraddizioni e disagi non siano semplicemente soffocati da un cerotto, ma arrivino a una sorgente ricca d’acqua sempre fresca.

La prima volta che lessi Moby Dick rimasi attonita, finalmente qualcuno raccontava i miei grovigli e osava dire che per scioglierli bisogna essere pronti a correre pericoli d’ogni tipo e a fare incontri ravvicinatissimi con le follie di altri uomini. È necessario lasciare il porto, fare una traversata in compagnia di marinai coraggiosi e inoltrarsi nell’oceano per stanare la pericolosa balena bianca. L’incipit del romanzo, nella traduzione di Cesare Pavese, è diventato un ritornello del cuore:

«Ogni volta che mi ritrovo sulla bocca una smorfia amara; ogni volta che nell’anima ho un novembre umido e stillante; quando mi sorprendo a sostare senza volerlo davanti ai magazzini di casse da morto, o ad accodarmi a tutti i funerali… allora mi rendo conto che è tempo di mettermi in mare al più presto. Questo è il mio surrogato della pistola e della pallottola».

Ismaele s’imbarca sul Pequod per non suicidarsi, rischia la vita andando a caccia della balena bianca per non morire di insensatezza. Sul suo dorso immacolato è scritto il segreto del mondo, inseguiamola!

Le vecchie storie di un tempo cominciavano dalla selva per uscirne; cominciavano dal suicidio, per evitarlo. Se un personaggio era in difficoltà, la trama alzava la posta in gioco con qualcosa di ancora più pericoloso ma entusiasmante. (…) Talvolta sembra pietoso chi spegne il fuoco, anziché attizzarlo. Ma Virgilio non diede un sedativo (o un coltello) a Dante mentre era mortalmente depresso nella selva, gli diede una spinta verso un’impresa all’altezza delle vertigini che tormentavano la mente del pellegrino. Lo invitò a intraprendere un viaggio folle e impegnativo fino alla vera casa dell’uomo, il regno dei Cieli.

(…) Non tutti gli incendi sono cattivi e vanno spenti, alcuni – anche se tormentano l’anima – vanno semplicemente attizzati con legna diversa, affinché brucino di ardore buono e non più di rabbia cieca. Accendersi, spalancarsi, trepidare sono verbi adeguati ai nostri bisogni più veri. Anche sprofondare.

Assi cartesiani, bestemmie e pianti

Durante il suo viaggio alla ricerca della balena bianca, Ismaele assiste alla vicenda del piccolo mozzo di bordo, il negretto Pip che un giorno cade in mare. «Un fatto assai pieno di significato accadde al più insignificante dell’equipaggio», osserva il narratore: è un bimbo che precipita in fondo all’oceano e ne viene ripescato matto. Di colpo, lui si trova a tu per tu con l’origine del mondo, sprofonda giù negli abissi ed è un’esperienza che lo stordisce, Melville scrive che è come se avesse parlato direttamente con Dio, guardandolo mentre tiene il piede sul telaio nell’universo. Quando torna a bordo della nave, Pip diventa quello che molti definirebbero un idiota, parla in modo incomprensibile alle altre creature umane. Melville però annota: «E così la follia dell’uomo è la saggezza del cielo».

Il mistero del mondo è così grande che chi ne parla da testimone è giudicato pazzo. La verità del mondo non sta dentro gli assi cartesiani dell’uomo, deborda da ogni parte e in tutte le direzioni. È un gigante bianco sommerso sotto l’acqua e sotto i nostri piedi, oltre le maschere della gente, dietro le bestemmie e i pianti. Anche Dante, quando vide il mistero di Dio a tu per tu, perse le parole e sentì di essere capace solo di un fioco balbettio per raccontare agli altri la sua visione. Come Pip, fu un piccolo bimbo di fronte a un padre gigante; però senz’ombra di dubbio qualcosa comprese, intuì che Amore muove.

Figlia della ragione del cielo

Ci muoviamo, eccome. C’è gente che in treno non riesce a togliere le mani frenetiche dalla tastiera del cellulare, ci sono alunni che proprio non sanno star fermi quando sono seduti al loro banco, io mi mordo le unghie pur di non stare immobile. Quest’impazienza nevrotica e superficiale è nutrita da quella corrente sotterranea che esplose di fronte a Dante in Paradiso, è l’urgenza di correre verso casa, di ricondurre a un’origine tutti i pezzi scomposti del nostro puzzle.

Il bambino gioca e non sta mai fermo. L’adolescente urla, disubbidisce, piange e talvolta scappa di casa; si muove forsennato e scomposto, è pazzo. Ma questa follia è figlia della ragione del cielo, è il bisogno di un senso che sia ardente e spalancato. Un giovane può forse mettersi a seguire la diabolica tentazione di qualcuno che gli propone degli anestetici alla sua frenesia, ma seguirà con ancora più fervore un curatore, un educatore, un amico che gli proporrà di attraversare l’oceano per stanare la balena bianca.

Niente ha senso? I conti non tornano? Sei arrabbiato con tutto e tutti? Bene, partiamo insieme: non rimaniamo a riva, imbarchiamoci assieme in un viaggio fino alla fine del mondo, a conoscere altri uomini (le loro gioie e le loro ferite), a conoscere i tumulti della terra (i terremoti devastanti e gli acquazzoni benedetti sui campi riarsi), a conoscere il silenzio in cima alle montagne e il putiferio dei centri commerciali. Andiamo a vedere se ha ragione quel matto, se davvero è Amore che muove tutto questo.

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