Dio benedica i nostri padri ebrei

I farisei di Leo Baeck. Il 27 gennaio in molte parti del mondo si celebra ormai da dieci anni il giorno della memoria, per ricordare le vittime dell’Olocausto che furono in gran parte ebree. Ho imparato però che la memoria per durare non può essere solo memoria di cose morte. La memoria non può funzionare a lungo se è basata unicamente sul meccanismo della colpa. La colpa è dura da portare e capiterà che ad un certo punto ci si fermi e ce la si scrolli di dosso. L’esercizio della memoria senza un po’di bene per il destino dell’altro, per ciò che egli è, non può essere l’antidoto all’odio, e lo dimostrano in qualche modo gli episodi di antisemitismo in continuo aumento in Europa. La memoria può funzionare solo se è capace di riportare in vita i morti, se ci permette di scoprirci in qualche modo figli dei morti, in debito verso i morti, desiderosi di ringraziarli per qualche cosa. Per questo oggi qui si scrive di un fatto avvenuto non 70 anni fa ma più di 2500 anni fa. Un avvenimento che ci ha reso per sempre eredi di uno sparuto gruppo di ebrei. 

 

Ci sono momenti nella vita di un popolo in cui la storia precipita e il mondo che si era conosciuto ed amato sembra venire giù. Arrivano giorni in cui la morte fa meno paura della vita, sembra  riservare meno incognite, meno sofferenze. Quando nel 587 a.C. Il re Nabucodonosor II assediò Gerusalemme e forzò le sue porte, non fu l’ennesimo generale a vincere una guerra, ma divenne il protagonista del dramma di un intero popolo. Il suo esercito distrusse la città fondata dal re Davide e occupò il Tempio di Salomone dandolo alle fiamme. La pietà divenne delitto, e coloro che rimasero vivi subirono la pena della deportazione.

Come racconta il libro delle Lamentazioni, Gerusalemmme divenne un panno immondo, solitaria, con le strade listate a lutto, le porte deserte, ovunque lamento e cordoglio. Gli unici che rimasero ad abitare il vecchio regno di Giuda furono le genti della terra, vignaioli e campagnoli. Il resto del popolo di Israele fu disperso in mezzo alle nazioni.

Destinazione Babilonia, a circa un migliaio di chilometri da Gerusalemme. Eppure la prova più dura sarebbe giunta solo una volta varcata la porta di Babilonia, capitale del mondo all’ora conosciuto, una sorta di New York del tempo antico, all’avanguardia nella tecnica, nelle arti, nella corruzione e nel traviamento. Ovunque palazzi, giardini, piramidi, templi e fregi, segno di potenza e contaminazione di idee, culture e religioni, un rigurgito di maghi, indovini e idoli plasmati da mani troppo umane.

Bisogna arrendersi a Babilonia
Di fronte alle scene di distruzione, al furore con cui i nemici si erano scagliati contro il popolo che Dio aveva eletto ad essere sgabello dei suoi piedi, di fronte alla rovina del Tempio, molti ebrei pensarono che il loro Dio avesse perso. Quando poi si videro circondati dalle meraviglie del mondo babilonese dovettero una volta di più credersi superati; ebbero l’impressione che gli uomini e i modi di vita di questo nuovo mondo fossero più importanti di loro stessi e delle antiche, devote forme della loro esistenza. Sia le rovine di Sion che i palazzi sull’Eufrate ebbero su di loro lo stesso, potente effetto. Dicevano entrambi la stessa cosa e, per i più, la risposta non poteva che essere una: era necessario capitolare anche interiormente, capitolare davanti a Babilonia ma anche davanti alle sue divinità.

Molti presto o tardi cessarono di essere ebrei. Coloro che invece lo rimasero, Dio mio, il loro nome sarebbe stato scritto sulla volta del cielo! Fu il grande comandamento di scegliere tra Israele e Babilonia a formare gli uomini i cui nipoti poterono intraprendere, assieme ad Esdra, la via della separazione, e i cui discendenti furono in grado di sostenere le lotte dei Maccabei, di condurre una duro scontro contro Roma. Da questa grande tragedia che fu la deportazione a Babilonia rinacque qualcosa di inaspettato. Fu la prima grande cernita, il primo vaglio che risparmiò solo qualche migliaio di persone; pochissimi, ma allo stesso tempo fortissimi perché il Signore li accompagnava.

Quando questi pochi si ritrovarono in un suolo straniero, soli, in mezzo alle molteplici seduzioni della civiltà babilonese, si diedero una fondamentale missione riassunta in questo insegnamento: “Mosè ha ricevuto la Torà dal Sinai, l’ha trasmessa a Giosuè e Giosuè agli anziani, gli anziani ai profeti e i profeti l’hanno trasmessa agli uomini della grande assemblea. Questi pronunciarono tre detti: Siate ponderati nel giudicare, allevate molti discepoli ed erigete una siepe intorno alla Torà” (Mishnah avot, 1,1-2).

Erigete una siepe
Ogni futura speranza di far sopravvivere qualcosa del proprio popolo, della propria storia e quindi del proprio Dio, dipendeva dalla separazione, dall’isolamento nei confronti dei pagani. Ogni prospettiva di futuro dipendeva dalla possibilità di divenire santi. Tutti erano chiamati a santificarsi, ad essere perushim, ad essere farisei. Le prescrizioni in materia di purità e le norme sul cibo, prima rivolte solo ai sacerdoti, divennero regolamento per il popolo. Morto il Tempio e i suoi rituali sacrificali appannaggio di un’élite sacerdotale, l’insegnamento della Torà fu presentato come il vero servizio divino: servire il Signore volle dire allora occuparsi dell’insegnamento e questo servizio divino trovò la sua casa nella sinagoga, la casa della preghiera. All’unico Tempio subentrarono le tante sinagoghe; il Sabato divenne il giorno del Libro e la Sacra Scrittura iniziò ad essere letta ad alta voce nella casa di Dio. La Torà diventò in questo modo di tutti.

Questo accadde tra i deportati di Babilonia. Si separarono dalla contaminazione dei pagani, da una cultura dominante che contestava tutto quello in cui credevano e così salvarono il nome di Israele dall’oblio della storia. Quando nel 538 a.C., Ciro il grande, re dei persiani, sconfisse Babilonia e diede ai Giudei il permesso di ritornare nel loro paese di origine furono proprio questi farisei a tornare. Molti invece furono quelli che si persero tra le strade di Babilonia. I farisei divennero così padri di una nuova moltitudine, padri del popolo di Israele e coltivatori del terreno di Iesse da cui sarebbe germogliato Cristo Gesù. Che Dio li benedica per il loro coraggio.

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